Si firma W. e tutti pensano che si chiami Walter

Sul Corriere della Sera di oggi 24 dicembre 2017

Si firma W.

E tutti pensano che si chiami Walter.

Invece W sta per Writer.

Alcuni dicono che è meglio il vocabolo italiano graffitari e che sarebbe meglio chiamarli vandali: sono infatti gente che non sa sopportare un muro pulito, una parete appena dipinta, un ponte audace nel suo sporgersi sul vuoto e perciò lo rovinano con segni grossolani e immagini. Altri dicono che si tratta di un’arte e che i writer o graffitari sono gli artisti che liberano l’espressione dei sentimenti dalle botteghe raffinate e asettiche dei mercanti, dai locali deprimenti dei musei. Portano le ferite dell’anima sulle strade del Paese come un rito di purificazione, che invita i passanti a liberarsi da ciò che pesa sul cuore.

W., a dire la verità, non era molto interessato alla discussione. Ad essere sinceri e un po’ spietati, si deve riconoscere che W. non era propriamente interessato a niente. Apparteneva alla tribù dei senza Paese. Non viveva da nessuna parte: un po’ di qua un po’ di là. Non andava da nessuna parte: un po’ a piedi, in treno, sul bus, un po’ avanti un po’ indietro, girovagando. Non aveva nessuna compagnia. Non si può dire, però, che non facesse niente. Di giorno in effetti non era molto impegnato: stava seduto e, a sentir lui, pensava. Stava sdraiato e dormiva. Camminava intorno alla stazione e disturbava i passanti: almeno un panino lo rimediava sempre. Di notte però aveva il suo momento frenetico: andava a prendere i suoi attrezzi, nascosti chi sa dove, puntava a qualche muro adocchiato durante il giorno, vecchie fabbriche o cantieri. E finalmente dava sfogo al suo genio! Scriveva la sua vita sui muri. Le sue paure, i suoi spaventi, le sue preghiere e le sue bestemmie. E firmava W. Alcuni dicevano che imbrattava i muri, altri restavano spaventati di fronte ad alcune immagini, altri leggevano i suoi dipinti con una certa sorpresa e persino ammirazione.

W., però, non si curava dei commenti, che neppure sentiva, perché lui di giorno era della tribù dei senza Paese, un po’ di qua, un po’ di là.

Forse si firmava W. per non farsi riconoscere, forse imbrattava i muri per invocare un po’ d’attenzione, forse sperava che suo papà passando per caso di là ascoltasse il messaggio di un figlio che non aveva mai ascoltato.

Il fatto è che per l’Angelo era un problema trovare W. dato che non abitava da nessuna parte, un ragazzo senza Paese. Per di più l’Angelo neppure sapeva che faccia avesse. Ma lui aveva una missione e non poteva sottrarsi alla ricerca. Lo cercò di giorno, ma non era da nessuna parte, lo cercò di notte, ma chi sa dov’era. Tra sé e sé l’Angelo si diceva che doveva essere ben triste un ragazzo che non aveva casa, che non si sentiva dire «Buonanotte» dalla mamma e domandare «Com’è andata?» dal papà. Quindi gli venne l’idea di cercare W. non chiedendo informazioni e indirizzi, ma piuttosto cercandolo nella zona della tristezza. Ogni città, infatti, ha quel quartiere che non sta da nessuna parte, anche se gli abitanti si riconoscono al primo sguardo.

E di fatti quando incrociò W. vicino alla stazione, mentre infastidiva i passanti per qualche centesimo, l’Angelo lo riconobbe subito.

«Ma quando l’ha riconosciuto, che cosa gli ha detto?», direte voi? Infatti tutti sanno che è difficile parlare con W. e con quelli che abitano nel quartiere della tristezza: sono corazzati e inaccessibili. Forse hanno troppo sofferto e temono di ricevere altre ferite: non credono facilmente a chi propone amicizia e altre cose fantastiche. Ma l’Angelo non poteva fallire. Fatto sta che propose a W. di scrivere la sua vita nientemeno che sul cielo.

Per nove notti W. lavorò come non aveva mai fatto e riversò nelle ombre e nelle luci del cielo tutte le poesie che aveva composto, tutte le lacrime che aveva versato, tutti i sogni e tutti i ricordi di chi lo aveva amato da piccolo.

E il cielo fu pronto giusto in tempo, per la notte di Natale: era così bello e così vero, così buio e luccicante di stelle che tutti rimasero incantati e commossi. Si capiva che era il cielo di Natale: era come un’attesa di angeli e una promessa di qualcosa. W. stesso ne rimase sorpreso e non si stancava di contemplarlo.

L’Angelo, soddisfatto della missione compiuta, salutò W.: «Buon Natale, benedetto ragazzo! Non ho mai visto un cielo così bello! Complimenti! Si vede che anche uno che ha sempre fatto pasticci, può fare un capolavoro. Buon Natale, benedetto ragazzo!».

Da quel giorno, però, i graffiti divennero racconti di favole festose e la firma, per chi riusciva a leggerla, era Benedetto.

 

Mario Delpini *arcivescovo di Milano

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