Luchino dal Verme, già comandante partigiano della divisione garibaldina Gramsci, il 25 novembre compirà cent’anni. Vive nell’antica torre d’avvistamento dei Dal Verme a Torre degli Alberi, nell’Oltrepo pavese. L’ho incontrato una prima volta nella primavera 1983. Stavo lavorando a un libro (Genti – Formicona editrice, uscito sul finire dello stesso anno) e ho voluto raccontare la storia di quest’uomo, l’autorevolissimo comandante Maino che, dismesse le armi e rimboccate le maniche, nel dopoguerra ha fondato un’azienda agricola all’avanguardia in Europa. Un racconto distribuito su più giorni, in parte affidato al registratore, in parte scritto a penna. Una storia che qui ripropongo – divisa in tre parti – in occasione di questo suo nuovo straordinario traguardo.
(Giovanni Giovannetti)
Spero che ognuno si renda conto di quanto poco sia partigiano far parole e discorsi: resistenza è azione, è comportamento, è impegno, è stile di vita – è tutto tranne che parole. Al ricordo delle speranze del ’45 e al rimpianto dei compagni perduti, si aggiunge l’amarezza di questi anni, pieni d’ingiustizie sociali, di corruttela e di violenza.
Ecco allora che parlare di resistenza non è patetico revival da reduci di guerra, ma un’occasione per cercare di capire errori fatti e scelte da fare, un’occasione per onorare chi ci ha creduto fino in fondo. Dobbiamo rifarci all’8 settembre, alla fuga generale, con l’Italia trasformata in un campo di battaglia fra stranieri, vuoto totale al vertice, fame alla base, l’arroganza tedesca su tutto, lo spettro fascista. Che fare? Le sorti della guerra sembravano decise. Valeva la pena di esporre al furore nazista le povere valli di montagna per dar vita a formazioni che nel quadro della guerra mondiale potevano avere l’importanza di un granello di sabbia in mezzo al Sahara?
Il Comitato di liberazione, il Corpo volontari della libertà, il Corpo italiano di liberazione hanno dato la necessaria risposta: l’Italia doveva scendere in campo, non poteva aspettare la libertà dalla mano dello straniero. Se è vero, com’è vero, che la vita è fatta di scelte, quel momento storico non poteva che determinare scelte coraggiose. Quei primi drappelli scarmigliati che scendono in campo con le vecchie uniformi grigioverdi, i nuovi nomi di battaglia e delle povere armi strappate al nemico, sono la più grossa testimonianza di capacità di scelta che tutta la popolazione fece sua, fornendo quel supporto che il tempo dimostrò determinante. Per me l’8 settembre è stata una data enorme. Io venivo già da sei anni di guerra, avevo sulle spalle due anni di esperienza di campagna di Russia, in un reggimento meraviglioso.
Una situazione di privilegio assoluto, perché per sei anni ero stato sempre nel medesimo reparto, da sottotenente a capitano, con incarico anche di maggiore: responsabilità molto grosse, ma sempre con gli stessi uomini, o quasi.
Ne conoscevo vita, morte e miracoli, e loro mi conoscevano, in tutti gli aspetti: umani, fisici, di resistenza, di capacità. L’8 settembre io sono l’aiutante maggiore di gruppo, mi arriva un foglio che dice: «Il comando di divisione ha ordinato che tutti gli ufficiali si trovino a gran rapporto». Non l’8, ma il 15 settembre, otto giorni dopo, quando tutto era finito, otto giorni dopo che erano cominciati ad arrivare lì tutti i soldati che abitavano in quel paesino, da quell’esercito che si era smembrato, che si era sciolto, e tornavano a casa a dire: «Ma voi cosa state qua a fare»?
Io ero a Lugo di Romagna. Brandeggiammo un giorno cannoni verso i tedeschi, il giorno dopo dall’altra parte. Sono andato dal colonnello a dire: «Ma scusi, signor colonnello – lo stimavamo enormemente, avevamo fatto anni insieme – per piacere, mi aiuti a capire. Io non sono più capace di fare il burattino , con i miei soldati, con i miei uomini, che hanno ogni fiducia in me. Oggi non è più una questione di fiducia nelle istituzioni, è personale».
L’ordine dice: «Il comando di divisione ha ordinato che…» Io capisco che c’è qualcosa che non va, riunisco subito gli ufficiali, e dico: «State attenti, ragazzi, qui succede qualcosa che non va». Di solito l’ordine è: «Il colonnello comandante Pacinotti ordina che domani tutti gli ufficiali si trovino a rapporto. Il colonnello comandante». Invece, qui il colonnello comandante dice: «il comando di divisione ha ordinato che domani tutti gli ufficiali si trovino a rapporto . Firmato: il colonnello comandante». Che è questa nuova formula? Andiamo al comando, che era a tre chilometri da noi, a Forlì, e li troviamo tutti tirati, con delle facce… «Cosa c’è qui? Cosa sta succedendo?» «Succede che il colonnello ha trasmesso quest’ordine, ma poi non lo esegue e tenta di raggiungere il Re, nell’Italia meridionale». Riunione. Siamo restati tutta la notte a discutere: giuramento, onore, dovere, stellette, l’ultimo ordine militare è questo, però il giuramento è al Re, però chi è il Re… Morale: dopo ore avevano tirato fuori la parola: «Qui qualcuno tradisce: o è il comandante della divisione, o è il colonnello comandante». Due persone che personalmente stimavamo. Quindi siamo al casino totale: il Re – altro dramma – lascia completamente, scappa, è scappato.
Nel reggimento c’era una grossa fronda antifascista: non si salutava col saluto romano ma sull’attenti, rifiutandosi di fare quell’altro saluto. Ma erano balle di forma, di sostanza non c’era niente. Ma la fedeltà e la fiducia nella monarchia, era il valore portante, fuori discussione. Io, tra l’altro, vengo da una famiglia dove un prozio era precettore dei Savoia. Questi uomini destinati a diventare i responsabili del Paese crescevano in mezzo alle sottane e nei salotti. E allora lui, per allargare gli orizzonti, ha portato il duca Tommaso a fare un viaggetto che si chiamava allora Giappone e Siberia; e han pubblicato un libro che mi dicono che è ancora attuale oggi. Si capisce perciò che cosa rappresentava la monarchia in famiglia: affidamento, ma con molta critica. Delle nostre donne, nessuna faceva parte del Palazzo – diciamo – ma dell’ambiente, della parentela, sì. C’era molto sentimentalismo, molta più forma che sostanza.
Questo mito crollava. Ricordo che papà diceva: «Quando un Re viene messo in discussione, vuol dire che non c’è più, è crollato, è morto dentro». Per cui, quel famoso 8 settembre, ci trovammo di fronte tutti a questo dramma. Era più acuto negli ufficiali effettivi che in quelli di complemento, perché per gli ufficiali effettivi una scelta sbagliata in quel giorno voleva dire compromettere la carriera. Si trattava di tre scelte: obbedire all’ultimo ordine e presentarsi al comando di divisione, che voleva dire certamente – come dicevamo tutti – farsi prendere dai tedeschi e farsi mandare in Germania, eran già partiti non so quanti treni. Oppure, tentare di seguire l’esempio del colonnello e raggiungere l’esercito di liberazione che si stava ricomponendo a Sud. O infine – come poi abbiamo fatto in molti – a casa e poi vedremo.
Ci siamo lasciati. Prima di tirar fuori la parola «tradimento» c’è voluto un certo tempo, però ci siamo lasciati promettendoci di non rinfacciarci mai la diversa scelta che ciascuno di noi faceva. Io sono tornato qui, mi sono presentato a mia madre, e ho pianto dicendo: «Mamma, per la prima volta in vita mia non so più qual è il mio dovere». Prima di venir via, ai miei ufficiali, a tutti i miei soldati – non ne era scappato uno! – ho detto che avevo la licenza di mandarli a casa, con un foglio di carta in bianco, perché non si poteva dargli un foglio di carta del reggimento, voleva dire comprometterli. C’era scritto: «Ha servito con onore il suo Paese». Oggi in certe famiglie si trova il quadretto: è un foglio di carta non intestata firmato “Luchino dal Verme”, o “tenente Farina”.
Tornato a casa, ho dovuto star qui due mesi nascosto: tedeschi, fascisti, me ne han fatte di tutti i colori…
Il comando fascista era a Voghera. I miei davano molto aiuto a tutti i soldati che tornavano a casa e dal Piemonte andavano in Emilia. In quel periodo l’Italia è stata fantastica: che cosa non ha accolto, tutti quelli che passavano, che trasmigravano, li davi da mangiare e gli raccoglievi in casa.
Verso i primi di ottobre, sono passati di qua due ai quali mia madre ha dato ospitalità come dava a tutti. Erano due spie mandate su dai tedeschi, dai fascisti di Voghera, che poi ci hanno denunciato, dicendo che avevamo in casa le radio, e che eravamo in collegamento chissà con chi, tutte balle inventate di sana pianta. E lì sono cominciati dei veri soprusi: han portato via me, papà mio, processo, non processo, degradazione… Perché allora non potevano farmi niente, non ero più in età di leva, quindi non avevano argomenti. Il comportamento è stato talmente grave che ci ha fatto capire che cos’era. Perché, il vero dramma del fascismo, è stato che nessuno di noi aveva mai sofferto sotto il fascismo. Le adunate al sabato pomeriggio e alla domenica erano un fastidio, certo, perché era più piacevole andare a giocare al pallone che andare al premilitare, ma il resto… Eravamo giovani, allora, chi l’ha sofferto erano gli operai che dovevano aver la tessera per poter lavorare, quelli che avevano bisogno di esprimere qualche cosa e si accorgevano che il fascismo non glielo permetteva. Io l’ho soltanto intravisto, appena appena, nel mondo cattolico, perché la mia formazione era quella. L’avevo visto soffrire, perché vedevo i comportamenti, ma clandestini – anche nei nostri riguardi non ne parlavano ufficialmente, avevano paura. Erano i boy-scouts, il mondo scout, che il fascismo aveva sciolto, come aveva sciolto l’Azione cattolica, perché eran tutte associazioni che non gestivano loro.
Erano state costituite le cosiddette «Aquile randagie»: dei nuclei piccolissimi, il cui obbiettivo era di continuare a ritrovarsi, non di portare avanti una proposta politica diversa. Affermare il principio: «Noi siamo una piccola associazione, e noi la portiamo avanti, indipendentemente dal fatto che il fascismo ci impone di scioglierci». Direi che era tutto limitato lì, per quel che ne so io, nessuna azione. Le uniche azioni precedenti di resistenza erano state promosse dal Pci, pochissimo anche lì, ma senza dubbio qualche cosa lì c’era in atto, di cui non avevamo la misura. Ma quel fascismo che noi non avevamo sofferto durante il periodo fascista, se non sul piano della forma, o su altri piani secondari, nel periodo immediatamente dopo l’8 settembre, abbiam capito che razza di gente era! E abbiamo ricominciato a ritrovare i collegamenti a livello di reggimento, per conoscenze personali.
Io stavo qui, il colonnello Cerloneschi stava a Valenza, un altro stava altrove: abbiamo cominciato a ritrovarci, a rivederci… «Che cosa fa? Non è possibile star qui con le mani in mano… D’altra parte indirizzi non ce n’è». Viceversa, dal Sud cominciavano a dire: «Promuovete qualche cosa, datevi da fare». Noi abbiamo fatto una certa analisi – in quattro, cinque, sei, molto slegati, con molte difficoltà, perché il mezzo di trasporto era la bicicletta… «Qui l’unica cosa che possiamo fare noi, oggi come oggi, è organizzare un servizio di informazioni più valido e più corretto possibile per gli alleati. Vediamo di fare una cosa di questo genere».
Nel mio reggimento, c’erano vecchie tradizioni di cavalleria, di ippica, di concorsi ippici; e tra gli ufficiali tedeschi c’era gente che si conosceva su questo piano. A Valenza c’era un comando tedesco, con un vecchio colonnello del reggimento in pensione che aveva in casa sua, perché gliel’avevano requisita, quegli ufficiali tedeschi che si conoscevano perché si montava a cavallo insieme nei concorsi ippici. Attraverso questo vecchio uomo abbiamo cominciato a cercare di avere notizie da loro, attraverso il farli bere. Io facevo la spola tra Valenza e il Penice, dove intanto era nata una stazione clandestina di comunicazione con gli alleati. In bicicletta, va e vieni…
Un giorno incontro un ragazzo di Voghera, che mi dice: «Stai a sentire, io so che tu stai facendo lavori di collaborazione…» «Ma chi te l’ha detto, cosa ne sai tu? Come fai a inventare queste storie? Sei un provocatore! Vieni qui per provocare! Io non so niente, non so niente, non faccio assolutamente niente, sono nel disordine totale, me ne guardo bene…» «Bene, dice, non so niente. Hai ragione, fai bene a non dirmi niente. Comunque sappi che io mi chiamo Legnano, se hai bisogno, se ti serve, se cerchi… ricordati che mi chiamo Legnano e sto nel tal posto a Voghera, e in te ho piena fiducia». «Va beh», dico. «E tu come ti chiami?» «Cosa vuoi che mi chiami? Non mi chiamo niente, non sono nessuno! Se è per farmi capire con te, siccome Legnano è una marca di biciclette, scegliamo qui come nome la sottomarca, la sottomarca è la Maino. Almeno come sottomarca». Ed è nato il nome Maino.
Poi su questo abbiamo giocato enormemente, che Maino voleva dire Mai no. Hanno scritto degli articoli su questa cosa, si sa come sono i giornalisti: il Maino era quello dei Mai no. Invece era nato come sottomarca della Legnano! Amen.
Continuo quest’attività, e intanto nascono le formazioni, con tutti i tipi possibili e immaginabili. All’inizio, non c’è dubbio, prevalentemente Pci: ragazzi che, costretti all’obbligo di leva, per paura di essere mandati in Germania preferivano piuttosto venire nelle formazioni – di questo noi ce ne rendevamo conto, e non potevi dirgli di no – e perseguitati politici che avevano già svolto dell’attività in pianura, ma non ce la facevano più a vivere là e venivano in montagna. Formazioni, dunque, molto eterogenee.
Un bel giorno viene da me un vecchio uomo, Alcide Civardi, un funzionario delle poste di Milano, un fior di individuo, che aveva fatto molta attività ed era stato mandato su perché a Milano non poteva più vivere, era troppo segnato. Viene da me e mi dice: «Stai a sentire, succede questo e quest’altro. Io sono incaricato dal Pci di affidarti l’incarico della formazione di queste zone». Io ero molto perplesso, dico: «Ma ne avete discusso, ne avete ragionato? Ma ti rendi conto di cosa vuol dire?Io devo ricominciare da capo…» Invece lui aveva fatto un’analisi della storia, del comportamento, della famiglia, ecc. e concluse: «Ci sembra corretto e giusto fare così ;». E io. Ma ci siete di mezzo voi, sono io che comando o siete voi che comandate?
Avevo una grande diffidenza nei confronti del Pci: era il bolscevismo, era la rivoluzione, era il sovvertimento, nella nostra mentalità e nel nostro giudizio. Difatti c’erano state delle opposizioni, l’ho saputo vent’anni dopo: due comandanti di formazione, Ciro e l’Americano, tutt’e due del Pci, si sono opposti. Han detto al partito: «Ma voi siete matti, cosa vuol dire dare il comando della “Gramsci” a un dal Verme?» E si sono battuti perché questo non avvenisse.
Io non solo non l’ho mai saputo, da loro, ma ho avuto da loro una totale solidarietà, sul piano umano, sul piano militare, sul piano delle piccole e delle grandissime cose. Vent’anni dopo, quando ho avuto quel vergognoso attacco ai tempi di Feltrinelli, perquisizioni nella casa, loro hanno scritto un articolo sul giornale, e ho avuto la loro sempre piena solidarietà. Con la mia formazione, c’era anche un altro dramma: la scomunica. C’era di mezzo la Chiesa, i comunisti! Il mio reggimento era cattolicissimo: «Ma tu sei matto! Ma guarda che, appena abbiamo finito di far la guerra con questi, dobbiamo farla con quelli!»
Per fortuna incontro un giovane sacerdote che conoscevo da tempo e mi dice: «Luchino, non hai capito proprio niente. Ma se tu credi, credi nella vita come dono, come responsabilità, ricordati che il dono immediatamente successivo è quello della libertà. E se non sei capace di batterti per la libertà dell’altro uomo, se non ti rendi conto che ti fai tanto più libero quanto più ti impegni per la liberazione dell’altro, perché lui si liberi, perché lui sia libero, allora non hai capito niente». Era un uomo estremamente illuminato: è morto in Brasile, perché poi ha avuto dispiaceri con la Chiesa… Ma c’era sempre questo atteggiamento nei riguardi del Pci, di diffidenza. Mi ricordo le discussioni avute con Italo Pietra e Carlo Zucchella, giù in una fornace. Zucchella, un piccolo uomo, ma enorme, enorme! Avevamo l’impegno di assumere la responsabilità militare delle formazioni, di rispettare l’andamento, ma loro non pretendevano che firmassimo una tessera Pci. Anzi, quando io mi sono lamentato di certi ragazzi che erano del Pci, era il mio commissario che li rimetteva a posto, in un modo spaventoso, cosa che io non avevo mai osato fare. L’impegno di questo commissario era perché la linea discussa e scelta alla fine venisse applicata secondo le direttive che io poi davo volta per volta. Per esempio, uno dei passi giganteschi è stato quello di dire: «Va bene, facciamo questa azione qua, però quando abbiamo deciso di farla e abbiamo deciso gli uomini, io ho il diritto di dire; “No, questo no, è sproporzionato alle sue forze, perché non è preparato, perché è troppo giovane, perché è troppo vecchio, ecc.” Quando poi sei in azione, però, la condotta dell’azione la guido io e pretendo di guidarla io. Può essere anche un altro, ma se date l’incarico a me, pretendo che, in fase di azione, i comportamenti siano come dico io». Loro andavano alle azioni così, alla “carlona”, invece io pretendevo l’avanguardia e la retroguardia, se no morivano come mosche… Il commissario è stato bravissimo, e ha detto: «Ma non c’è dubbio, deve essere così e non può che essere così». Un conto è l’autorità e un conto è l’autorevolezza… Italo Pietra e altri come me si aveva una esperienza militare, sapevamo che non si possono fare le cose così. E i commissari comunisti sono stati fedelissimi, bravissimi. Durissimi nel pretendere ufficialmente dai loro uomini che ciò venisse rispettato. Accettato questo criterio, un altro stress. A una riunione di questo gruppettino del partito che mi dà l’investimento e mi dice: «Luchino è responsabile della cosa e…» e io accetto, immediatamente dopo mi cantano questa canzone: «Non c’è tenente né capitano, né colonnello né generale…» Bisogna andare indietro di quarant’anni per capire ciò che voleva dire per noi. Poi mi sono accorto, e l’ho scritto anche sul libro del nostro reggimento, che era profondamente vero: non sono i gradi che ti danno l’autorità, è il tuo comportamento, le tue capacità. L’autorità viene da infinite cose, non dai gradi. Però, al momento, è stato uno shock per me: «E qui come si fa?» Difatti, ho cominciato da capo, ho cominciato a fare delle azioni, magari inutili, ma del loro livello. Non potevano credere e accettare che fossi capace: dovevano vedere che lo ero.
Il nostro impegno nelle formazioni partigiane era quello di aprire un fronte in modo da sottrarre energie ai tedeschi, già impegnati sul fronte del Sud. Quindi, più noi li disturbavamo sulla via Emilia, più loro erano obbligati a viaggiare in colonna e ad impegnare più tempo ed energie. Queste erano le direttive degli Inglesi e degli Americani. Naturalmente, con quelle azioni di provocazione, loro dopo un po’ non ne potevano più, venivano su e facevano i rastrellamenti. In principio sbagliando, perché loro venivano con i fucili e noi avevamo le pistole; loro venivano con le mitragliatrici e noi avevamo i fucili; loro venivano con i cannoni, e noi eravamo sempre in ritardo! Le poche armi che avevamo, le avevamo prese nelle loro caserme, o giù sulla via Emilia. Tutto questo avveniva in un ambiente favorevolissimo per la solidarietà totale della popolazione nella nostra zona.
Una volta catturiamo la coda di un reggimento di giovani fiamme bianche, le ultime leve. Avevano preso quelli che si erano presentati, li avevano portati a fare un periodo di addestramento in Germania e ora li chiamavano le fiamme bianche – ragazzi giovanissimi, diciotto-vent’anni. Veniamo a sapere da uno dei nostri uomini della pianura, un ferroviere, l’aveva visto passando non so dove, che stava arrivando da Pavia, in marcia verso Voghera a piedi, un reparto di queste fiamme bianche, che sarebbe passato verso Montebello a un certo momento.
Abbiamo fatto tutti i conti, siamo andati giù, abbiamo lasciato sfilare tutto il reparto e ne abbiamo catturato la coda. Non è che ci interessavano questi ragazzini, ma le loro armi. La sera al buio – loro erano molto a disagio, un loro ufficiale era rimasto ferito – li portiamo su. Due giorni dopo viene da me il parroco di Torrazza Coste e un altro a dire: «Guardate che i fascisti hanno catturato venti civili, venti cittadini di Torrazza Coste, e hanno detto che, se non restituite le fiamme bianche, loro uccidono i venti civili». È inammissibile! Civile con civile e militare con militare. Altrimenti è un ricatto spaventoso! Possono catturare Casteggio e poi dirci di venire giù se no fucilano Casteggio? Siamo pazzi! Insomma, dico: «Va beh, vengo giù io a parlare con loro».
Sono partito per Voghera con lui, un sottoufficiale delle loro brigate, e con la mia vetturetta, con il guidoncino di comandante di brigata, sono andato fino a Voghera a trattare con questo ufficiale. Lui, ferito in ospedale, era un ufficiale che avevo incontrato per caso in Russia, lui ufficiale dei bersaglieri e io ufficiale di artiglieria. «Ma tu eri a Ivanovskij?». «Sei tu che sei nel torto». «No, sei tu». «Comunque – dico – soltanto il fatto di fare una proposta di questo genere dimostra che razza di bastardi siete… Tu sei, insomma eri un uomo d’onore!» Accettano, i civili vengono liberati e cominciamo una trattativa. «Noi siamo disposti a far venire giù le fiamme bianche, sempre che vogliano tornare giù, però voi restituite il tale e il tale» (avevano in mano tre dei nostri). Arrivo in fondo alle scale dell’ospedale, e trovo due colonnelli tedeschi, penso: «Addio, ci siamo!» Ma quelli mi dicono: «Ci risulta che se queste trattative non vanno in porto voi fucilerete il generale Tal dei tali» che avevamo in mano nostra. Rispondo: «No, non siamo assassini come voi. Il generale è in ottime condizioni. Avete la mia parola d’onore: siamo disposti a cambiare anche lui quando volete, ma con il tale, il tale, il tale» che erano don Rino, Marco, e qualcun altro. E allora il colonnello tedesco, finito il discorso, dice: «Va bene. Lei si sente sicuro a tornare nella sua zona? O vuole la scorta?» Dico: «No, a trattare con gente come voi, se chiedo la scorta, quella può avere l’ordine di spararmi. Quindi non serve». E invece m’han dato la scorta. Arrivo giù in fondo all’ospedale di Voghera, alla porta, e c’è un certo numero di persone di Voghera. E mi applaudono perché ero il simbolo dei partigiani, che erano scesi a Voghera. Dico: «Ah via, adesso andate via, moccatela, lasciatemi tornare a casa, qui non serve a niente se mi fan fuori». Insomma, cerco di andar via veloce, ma i tedeschi, in autoblindo, m’han seguito benissimo. Morale: siamo arrivati fino a una certa zona, e poi l’autoblindo è tornato indietro. Io mi sono fermato, sono sceso, e mi sono rivolto all’ufficiale: «Ai vostri superiori ho detto che la scorta avrebbe potuto avere l’ordine di spararmi. Non è stato così. Porgete le mie scuse al vostro comandante. E magari domattina ci troviamo sulla via Emilia, non so». Ecco, è una storia delle tante che potrei raccontare.
A noi partigiani la popolazione dava un contributo totale. Abbiamo organizzato la raccolta dei viveri, perché non ammettevo che oggi si andasse a farsi dare un bue qui e domani il pane là. Abbiamo fatto un’indagine, mediante i commissari, davvero bravi, e abbiamo retto molto bene, molto bene. Ricevere in casa uno di noi voleva dire farsi bruciare la casa al primo rastrellamento, perché c’era sempre la spia che poi diceva: «Guardate, Luchino faceva capo qui, faceva capo là». Io vivevo in una buca nel bosco, non avevo nessuna casa. E appena era possibile non volevo che gli uomini vivessero nelle case, per non esporre nessuno a questo rischio e soprattutto per non sollevare reazioni nei riguardi dei paesi, reazioni che poi si ripercuotevano sulle formazioni In altre zone questo è successo largamente, perché i partigiani hanno esagerato nell’abusare dell’ospitalità del popolo. La buca dove vivevo io, era ricavata nel bosco, e studiata molto bene. Vi si accedeva attraverso un torrentello e, siccome era gelato, non si lasciavano orme. Sulla neve le orme si vedevano, e quando i tedeschi fossero venuti in rastrellamento coi cani ci avrebbero sicuramente beccato. Abbiamo passato tutto questo periodo filtrando attraverso le loro linee, e sempre provocandoli. Poi, nel novembre 1944, c’è stato quel pauroso rastrellamento. Siamo tornati indietro dalla val Curone, dove ci eravamo ritirati, perché venivano avanti in numero enorme, e il grosso dei nostri era andato via, erano rimasti soltanto dei piccoli gruppi.
Uno era qui in casa mia. Quando hanno occupato questa casa, i vecchi di qui hanno approfittato, dicendo loro: «Bravi, siete arrivati! Saccheggiare! Saccheggiare! Portare via!» E hanno svuotato casa mia, in una scena incredibile… Dopo il 25 aprile, ai primi di maggio, io torno a casa, finalmente! Facciamo una festa, c’era anche un ufficiale inglese, qui da noi di collegamento, un certo Bill. Siamo seduti sulla panchina e vediamo arrivare dei carri coi buoi… Cosa fanno, dove vanno? Stavano riportando tutto quello che avevano saccheggiato e nascosto in casa loro per salvarlo: il pianoforte, la federina, la macchina da cucire di mia madre, il trumeau … Cose da pazzi! Di queste cose ti rimane il segno. Nessuno avrebbe mai potuto dire niente; li avevano salvati sotto i portici, sotto casa loro.
Ma torniamo indietro, a quando ci siamo ritirati dalla val Curone. Arrivo qui e in casa ci sono i tedeschi. Dico: «Non è possibile, questi qui li becchiamo, si conosce troppo bene il territorio». E da una posizione che conoscevo, ho sparato un colpo di mortaio su casa mia, perché essere uomini liberi voleva dire anche questo: in quei momenti non conta più niente. Quando ero tornato, mi ero affacciato a guardare sulla costa, e mi son detto: «C’è ancora!» Ho fatto finta di niente, però mi faceva piacere che la casa ci fosse ancora. Poi nel giro di poche ore eravamo qui e abbiamo saputo che c’erano i tedeschi e… ci ho sparato sopra. Per fortuna ho sparato male ma loro, vedendo la nostra determinazione, si sono detti: «Piantiamo lì!» e sono scappati, così li abbiamo potuti prendere la mattina dopo, a Costa Pelata, in un combattimento ma grosso, dove son morti due civili, perché i miei uomini erano su a sparare, non c’era da mangiare, e i civili glielo portavano su.
Come si sa, quell’inverno fu durissimo. Noi abbiamo potuto superarlo più facilmente degli altri perché avevamo la solidarietà della gente. Però io ho cominciato allora a sospettare anche infiltrazioni. Difatti in quella buca eravamo in tre, e c’era solo una persona che sapeva dove noi vivevamo: una casa in vista di questa buca. Finestre aperte, o finestre chiuse, lenzuola stese ad asciugare o non distese, voleva dire che c’era bisogno di qualche cosa, o qualcuno mi cercava. Così sapevo cosa succedeva. Era gente che non ha mai chiesto la tessera di partigiano, intendiamoci. Una volta è nevicato forte: neve, neve e ancora neve. Mannaggia! Bene, male, bene, male, male, male. No, è male! È Bene! No, è bene! È male. Dopo tre o quattro giorni, con molta cautela, ci muoviamo. Però muovendoci si lasciavano delle orme. Per fortuna, noi avevamo questo torrentello vicino, gelato, e soffiando via la neve orme non ne restavano. Era molto buona come posizione se arrivavano i tedeschi, che però avevano paura ad andar fuori strada, perché noi conoscevamo il terreno, loro no. Se i loro mezzi erano estremamente superiori, noi avevamo però l’imboscata, grazie alla nostra conoscenza del terreno. Per loro era il terrore. Bene, un ometto, andando per legna, ha fatto tutta una bellissima pistarella, che dal paese arrivava fino alla cascina, a noi. L’ometto non se n’era neanche accorto: la buca era talmente ben nascosta… La mattina la troviamo: «Addio buca, ormai non è più sicura». L’ho detto ai vecchietti del paese (giovani non ce n’era più, o erano nelle formazioni o erano in Germania), mi risposero: «Non preoccuparti, tu vai avanti, ci pensiamo noi». Il giorno dopo ho trovato tutto un bosco pieno di orme, che davano la netta sensazione di gente che andava per legna. È uno dei tanti episodi. Non parliamo delle segnalazioni. «Guarda che ho saputo da mio nipote, da coso che…» La famosa Radio scarpa. Arrivavano anche notizie fasulle, però la base delle informazioni era quella. Un giorno ricevo una lettera di Longo, bellissima: riconoscimenti, elogi, complimenti… Però finisce dicendo: «Soprattutto mi compiaccio che malgrado le tue origini ti batta per la libertà dei popoli…». Aspetto “Riccardo”, cioè Mordini, un magnifico uomo, un comunista che parlava francese e bestemmiava in toscano. Era un ferroviere di Livorno, che s’era fatta tutta la campagna di Spagna, dove si era anche rotto il naso. E devo dire che è lui che mi ha insegnato a fare certe azioni, la guerra clandestina, ed era d’accordo con me nel correggere il comando, mentre invece tutti, anche il partito, imponevano una formazione di potere più che un’efficacia di azione. “Riccardo” andava e veniva da Milano, col comando generale, il mestiere più difficile che ci fosse, perché era necessaria molta freddezza quella che io non avevo. Bene, lo aspetto perché doveva arrivare da un momento all’altro, e quando arriva gli dico: «Riccardo, qui c’è il mio mitra. Longo non ha capito niente, guarda se questa è una cosa da scrivere…» M’ha fatto camminare su e giù per una strada di notte, con il vento e un freddo cane, a dimostrarmi che aveva perfettamente ragione Longo, che era il massimo dell’encomio che poteva farmi: «Lo vedi che povero Paese, in che mani è! Se penso che domani voi ne sarete gli esponenti e non avete ancora capito niente, voi che siete i migliori, la nostra speranza». Aveva perfettamente ragione, non so se aveva fatto le scuole elementari, però era politicamente preparato: sapeva che cosa diceva, per cosa aveva vissuto. Non so che ne è stato di lui, perché dopo la Liberazione è andato a fare il facchino alla casa delle aste, io che credevo diventasse un grande capo…
Finisce la battaglia per la liberazione di Casteggio, e torno a casa col 25 aprile, e qui trovo un biglietto di Cadorna, il comandante del Cvl, di cui ero stato ufficiale: «Luchino, raggiungi Milano il più presto possibile: bisogna trattare la resa con alcuni reparti qui intorno». Arrivo a Milano il più rapidamente possibile, e lì crollo. La paura: fucilate da tutte le parti, partigiani di Milano che mi bloccano e mi prendono per un fascista, insomma altre pagine durissime. In questo stato di casino totale, mi hanno mollato i nervi: Marco che mi era morto a guerra finita, tante cose… E poi una carica psicologica: «Qui è finita, non voglio più morire. È finita, perché devo morire oggi?» Mi mandano a Lodi a trattare la resa con questi reparti tedeschi. C’eran già partigiani locali che trattavano, ma i tedeschi non volevano saperne di arrendersi a un gruppettino di paese. Quando mi presento a questo colonnello tedesco, lui dice: «Sta bene. Se ci sono Ciro o l’Americano o Maino, allora accetto di arrendermi». Io mi presento, gli dico due episodi per provare che ero io, ho fatto qualche nome. «Allora lei è Maino, piacere di conoscerla». Ed è avvenuta la resa: venticinque ufficiali venticinque pistole che cadono sul tavolo, tu sei disarmato di fronte a lui che si disarma.
Non ne potevo più, ho detto: «È finita, basta, è finita, torniamo a casa». A casa c’è stato l’episodio dei contadini che riportavano al castello le cose nascoste, e poi quindici, venti giorni di festa, di chiasso, di ubriacature, di uscire dallo straordinario e di rientrare…
Col mio mondo, il calando è stato subito dopo la guerra. Mi sono bruciato quando è arrivato a Milano Umberto di Savoia. A loro non pareva vero di potergli presentare anche un loro esponente comandante di formazione. Ho detto: «Certo che vengo a vederlo, come no? Però sia ben chiaro che se mi dà la mano, io non gliela do, perché ha mancato completamente al suo dovere di responsabile del Paese». Questo mi ha tagliato fuori: «Luchino è comunista!» Poi la stessa gente quando ho fatto una bella azienda, diceva: «Non è vero allora che era un avventuriero». Perché fare il partigiano era un’avventura, ma fare un’azienda per bene no, e allora si corregge il giudizio.
A guerra finita io ero preoccupato delle mie formazioni partigiane: «che cosa succede adesso a questa gente? Chi la riporta oggi ad inserirsi nella vita?» Avevamo degli automezzi presi a Pavia, roba abbandonata dai tedeschi, o dall’esercito italiano. Volevo che questo materiale non andasse disperso: l’ho raggruppato e ne ho fatto una cooperativa di autotrasporti, con i partigiani. Ma non ero preparato a passare dalla parte militare alla parte di organizzazione civile, e i mezzi erano terribilmente eterogenei, e poi ognuno aveva una sua esigenza e mentalità (la mentalità del camionista è tutta diversa). Dopo poco ne sono uscito, e loro han portato avanti ancora questi automezzi, allora indispensabili, perché non ce n’erano molti in giro. Questa è stata la prima cosa. E ho capito che non era la mia strada, non potevo fare quel mestiere, dovevo far tutt’altro.
Mi è venuta allora l’idea di fare l’editore. Mi sono fatto dare da papà mio duecentomila lire, che mi sembrava di dissanguare la famiglia, perché sapevamo tutto – di giuramento, di onore, di dovere, di dedizione – però i doveri economici, zero assoluto. D’altra parte, prima della guerra c’erano in banca tre milioni di titoli di Stato della mia famiglia, dopo più niente. Con quei tre milioni i miei vivevano larghissimamente, perché gliene venivano duecentomila lire all’anno, quando un’automobile ne valeva diecimila. Era gente di sobrietà estrema, però non aveva mai avuto problemi economici. In casa si era sempre respirato questo concetto dell’economia, della sobrietà, del non spreco, del rapporto correttissimo coi dipendenti. Paternalismo totale, ce ne siamo resi conto dopo, ma rapporto privilegiato. Dopo la guerra ci siamo trovati con una situazione patrimoniale quasi intatta, però le cascine non c’erano più, e così molte famiglie, e lo stesso i soldi.
Prima l’azienda di famiglia era a mezzadria. E io non capivo niente, non mi rendevo conto del problema reddito-capitale. Mi faccio dare quattro soldi dal papà, vado a lavorare nella casa editrice. Guadagno, però mi accorgo che ci vuol ben altro. Venivo qui ogni tanto, e vedevo qui la cascina bruciata, là quell’altra che non ce la fa più, il mezzadro che non ha i soldi per comprare un nuovo paio di buoi, e io non ho niente da dargli. Ci voleva altro.
Mi sono sposato e mi sono trasferito qua: ecco, si comincia da capo. Ho proposto ai mezzadri di trasformarsi in cooperativa. Una volta la mezzadria era cinquanta e cinquanta, il lodo De Gasperi proponeva il quarantasette e il cinquantatre, e poi altre cose. Dopo un anno abbondante che ero qui mi sono accorto che non ce n’era né per noi né per loro. Dico: «Guardate, qui non si va avanti, non è questione di quarantasette e cinquantatre, o del trenta e venti. Su questa base noi non reggiamo più, dobbiamo inventare un’altra cosa. Io vi propongo di fare tutta questa zona a vigna, perché è la più idonea, e la affidiamo al tale (un certo Peppino da Prati) che è bravo e se ne intende, di modo che con una macchina sola si fa quello. In quella vallata, invece, alleviamo vacche con il latte per tutti». Questa proponevo di affidarla a Guglielmo, che era molto in gamba. «Resterebbero senza lavoro tre o quattro, ma per loro ho già trovato due inserimenti qua e là…» Dico: «Cosa c’è che non va?» E loro: «E io devo bere il vino fatto da lui? Io devo bere il suo latte?» Era troppo presto: troppo presto per i tempi, troppo presto per la mia preparazione, insufficiente forse a reggere una situazione di questo genere. Era molto più comodo andare avanti col regime paternalistico. Però ho capito: qui bisogna mettersi a studiare qualche cosa, perché altrimenti non se ne viene più fuori, né noi né loro. E i bambini intanto non hanno neanche le scarpe… Mi son messo a studiare. Non avevo fatto l’Università, ma il liceo, e male: a calci, poi c’era stata la guerra. Mi son messo a studiare, a guardarmi intorno: le macchine, i trattori. Certo, la meccanizzazione risolve tutto, però riduce la gente. E ho preso in considerazione due o tre strade. La frutta, anzitutto. Sono andato da un vecchio uomo di qui, il signor Cesare Taravelli di Santa Maria della Versa, che era un fior di individuo, e m’ha detto: «hai ragione, punta su questo, punta su quello, ma perché non curi anche il vino?» Rispondo: «Perché siamo troppo in alto, in montagna». Tra le zone povere, la fascia al di sopra dei 600 metri, la nostra è ancora la meglio, andando in su è sempre più povera, ma qui è già un grosso salto indietro rispetto ai versanti di pianura dove fai l’uva. Qui se l’andamento stagionale non è perfetto, non fai il vino buono. Per cui ho fatto a tempo a piantare delle viti, sbagliando, poi mi sono reso conto che qui l’uva arriva a maturazione perfetta un anno su tre! Perché siamo in montagna, e i nostri versanti non guardano la pianura. Qui si faceva il vino per autoconsumo: la gente viveva in miseria, c’era la fame, l’energia se la davano col vino. Ma neanche a parlarne di fare una produzione industriale. Finché è tutto autoconsumo, va benone: ancora oggi io bevo il nostro vino di qui, ma sulla produzione industriale niente da fare. E scopro il mondo delle galline, e scopro che sono delle trasformatrici formidabili di alimento-prodotto. Il tenore di vita cominciava a migliorare, e i consumi di carne e di uova in Italia salivano. E son partito con pulcini e galline sempre più avanti, vado in Francia a lavorare da operaio, per capire certe cose che qui nessuno sapeva: l’Università era al buio totale su malattie, ecc. Finché le galline sono dieci va tutto bene, ma quando i numeri vanno su manca proprio il substrato culturale. E dunque sono andato a lavorare in Francia, a scopiazzare, rubare modelli, rubare esperienze… tornato indietro, parto proprio sul serio.
Prendo contatto con l’Università di Pavia, con il povero Adriano Buzzati – che era stato mio compagno in guerra. E lui mi affida a un suo aiuto a Pavia, Scossiroli, che mi dice: «Certamente, partiamo col piano genetico, facciamo così e così». Si cominciava allora a parlare di polli da carne. «D’altra parte hai ragione, tu sei in montagna, fuori dalle nebbie, potrebbe essere interessante». A Pavia lavorava anche un professore americano, mi pare si chiamasse Leroy, che un giorno venne anche qui. Vado avanti due o tre anni, ero già all’individuazione: omozigoti, eterozigoti. E insomma, stiamo facendo una chiusa di pulcini e capita un macchinone degli americani. Dicono: «Caro dal Verme, noi vorremmo lavorare con lei». «Ma voi chi siete?» «Siamo della Rockfeller», «E che volete? Perché volete lavorare con me?» «Perché abbiamo saputo da questo professore di Pavia che lei sta facendo un lavoro molto serio, ma dobbiamo anche dirle che lei è in ritardo rispetto a noi di vent’anni». «Come, in ritardo di vent’anni? Ho già gli omozigoti!» Lo sapevano più di me a che punto ero… «Lei ha duecento famiglie, noi non lavoriamo con duecento, ma con ventimila, e con tre biologi, mentre per lei il professor Scossiroli dà assistenza genetica tre volte l’anno…» «Ma possibile?» «Abbiamo già individuato la resistenza a certe malattie, e calcolato bene la trasformazione mangime-carne. Siamo molto più avanti di lei. Se lei lavora con noi, noi vogliamo lavorare con lei. I patti li inventerà lei, ma ci deve dire se è disposto a lavorare con noi, altrimenti dobbiamo cercarne un altro, e lavorarle contro. Noi siamo troppo in anticipo, e lei sarà schiantato, dovrà piantar lì fra tre anni, perché il nostro programma di espansione è rapidissimo. Se non ci crede, venga in America a vedere».
Son salito su un aereo per l’America, per andare a vedere, ed era vero. Al ritorno sono andato in Università e ho detto: «Amici miei, che voi non siate in grado oggi di farci un piano di impostazione genetica lo ammetto, non ve ne faccio nessuna colpa. Ma che non sappiate che gli americani, non a livello di laboratorio e di ricerca scientifica, ma a livello di produzione commerciale sono già a questo punto, è semplicemente pazzesco!» «Ah, ma sai, le razze italiane…» «Benissimo le razze italiane, ma per competere con quelli o si parte con un programma governativo di dimensioni enormi – e io l’ho detto che le mie finanze non mi consentono di partire a livello competitivo con loro – o altrimenti si va sulla loro strada».
Insomma, piantai tutto e partii con loro.
E ci sono ancora oggi.